Non è stato facile rinunciare alla sicurezza che mi dava avere il controllo sul cibo, sul corpo e, ne ero davvero convinta, sul mondo intorno a me.
Un mondo in cui fino a quel momento, prima della malattia, avevo vissuto senza esistere veramente, dove non ero mai riuscita ad esprimere un bisogno, un desiderio, neanche con me stessa; ma dove ero riuscita a trovare un equilibrio che poi, in seguito a degli eventi importanti, si è rotto.
Una sicurezza, quella a cui ho dovuto rinunciare, che avevo cercato per contrastare il vuoto che mi aveva invasa, ma che ora pagavo a caro prezzo, perché mi isolava in un mondo dove gli altri non potevano raggiungermi.
Un mondo in cui non si arriva subito: te ne accorgi quando ti ritrovi da sola, quando tutto ciò che riempiva il tuo mondo “prima”, ora non ha più un senso, quando ormai hai permesso a una porzione di pasta di condizionare tutta la tua vita.
E ti chiedi come sia successo e come possono convivere in te due persone: quella che ti sostiene in questo assurdo meccanismo che ormai sembra avere una sua vita propria e l’altra, quella che ormai è stanca, stanca di rinunciare a tutto e che ha capito che tutte le energie spese per arrivare dove sei adesso sono state inutili.
Cominci a pensare che affrontare una vita con un corpo normale, affrontare ciò che forse non accetti di essere, sarebbe meno terribile di questo, ma ormai è tardi.
Perché la paura che quel cibo possa darti immediatamente una forza che non sei pronta ad avere, ti paralizza, inconsapevole ancora che quella forza, che tanto ti spaventa, esiste solo nella tua testa: è non aver bisogno di niente e di nessuno, è non dover mai chiedere … è essere soli.
Capirai che stai usando il tuo corpo ridotto a pesare trenta chili, per chiedere qualcosa, ma non sai neanche tu cosa. Solo ancora dopo, capirai che il linguaggio che hai scelto per comunicare è indecifrabile, non umano e che dovrai imparare a dire con le parole. Le cercherai a lungo: alcune ti suoneranno strane, ad altre dovrai dare un senso nuovo e sarà difficile, perché dovrai usarle per capire chi sei, per definirti, per esistere.
Non ho affrontato da sola il percorso lungo e non facile che mi ha permesso di uscire da questo problema. Dietro questo percorso ci sono una lunga psicoterapia, tanta fatica e tante cadute e, spesso, il pensiero che avrei dovuto convivere con questa sofferenza per tutta la vita; conviverci o morirne, prima.
Ma sapevo di non voler morire, di non averlo mai voluto. Ne era convinta anche la mia psicoterapeuta: avvertiva la mia voglia di vivere nel modo deciso in cui per anni ho suonato il campanello del suo studio, nel mio non perdere mai una seduta, neanche quando riuscivo ad arrivar a fatica all’appuntamento.
La relazione che si è creata con lei credo sia stata fondamentale per la mia guarigione. Anzi, quella con il terapeuta è la “relazione”. E funziona, se come lei, ci si relaziona non con la malattia ma con la “persona” che si ha di fronte.
Si è messa in relazione con me, Lucia, che occupavo un luogo dove, finalmente, esistevo; dove ho imparato con fatica a capire non solo chi ero, ma ad accettarlo e ad accettare di provare tutta una serie di emozioni e stati d’animo, anche negativi, con cui da sempre ho avuto paura di venire a contatto; dove ho imparato che non importa se non si è brave, non importa se qualcuno ci giudica, non importa se perdiamo qualcuno per strada e che non si può controllare tutto.
Con la consapevolezza di avere ora una forza, che non è più quella di non avere bisogni, ma una forza in grado di riconoscerli e di soddisfarli; una forza che permette di chiedere, di condividere; consapevole che si può avere paura, si può essere fragili e si può cadere, ma non è grave: ci si rialza sorridendo ora, senza sentirsi più né deboli né ridicoli, ma semplicemente umani.
In quel luogo protetto dove ogni parola può essere detta, dove niente di terribile può capitare, ho capito di aver scelto l’anoressia, senza esserne consapevole, per non affrontare un dolore che mi spaventava.
E così,come me, altre persone lo hanno scelto per risolvere il proprio disagio.
Ma si può anche scegliere di lasciarlo. Si può decidere se vivere o morire.
Ho finalmente capito che il mio vissuto, per quanto doloroso (più di altri ma anche meno), non posso cambiarlo, ma posso decidere come usarlo.
Posso lasciarmelo alle spalle, tenendo cari i bei ricordi e prendere tutto ciò che di bello posso ancora trovare sulla mia strada; o posso decidere invece che condizioni il resto della mia vita, impedendomi di essere libera.
Ho scelto di vivere e, forse proprio per il percorso che ho dovuto affrontare per guarire, di sentirmi libera.
Uno strano, forse perché nuovo, senso di libertà, che deriva dalla consapevolezza che si può decidere della propria vita, con tutta la responsabilità che questo comporta; che si può cambiare,scegliere il bene anche per sé stessi oltre che per gli altri.
E’ come nascere una seconda volta ma questa volta è esserci davvero.
E’ essere finalmente “nel” mondo.
A Lilli
Lucia